Frequently Asked Questions

 

F.a.q.: risposte date dal dott. Stefano Montanari

(Fonte: http://www.stefanomontanari.net)

Che cosa sono le nanopatologie e quali sono le nanopatologie più comuni?

Le nanopatologie sono le malattie provocate da micro e/o nanoparticelle solide, inorganiche, insolubili nell’acqua e nei grassi che entrano nell’organismo. Contrariamente a quanto pare creda la maggior parte del pubblico, medici compresi, le nanopatologie più frequenti non sono le malattie tumorali, pure frequenti, ma quelle cardiovascolari (ictus, infarto e tromboembolia polmonare.) Altre nanopatologie comuni sono la stanchezza cronica, l’insonnia, la perdita di memoria a breve, l’irritabilità, malattie neurologiche come il morbo di Parkinson ed il morbo di Alzheimer, malattie del sistema endocrino (es. tiroiditi e diabete), malformazioni fetali, sterilità maschile, malattia del seme urente, e varie forme allergiche. C’è, poi, tutta una serie di malattie cosiddette criptogeniche, cioè di origine ignota, su cui varrebbe la pena indagare sotto l’aspetto nanopatologico. Tra queste la SLA (sclerosi laterale amiotrofica) e la sclerosi multipla.

 

È possibile fare un test per sapere se si è intossicati da nanoparticelle?

No. Di norma, occorre una biopsia dell’organo malato. In mancanza di questa, in casi particolari si può esaminare il sangue, la saliva o lo sperma, ma senza alcuna garanzia di trovare lì particolato.

 

Esistono terapie per eliminare le nanoparticelle dall’organismo?

No. L’unica possibilità è la prevenzione, almeno ad oggi.

 

Quanto sono grandi le nanoparticelle?

Non esiste una definizione universale delle dimensioni delle nanoparticelle. Ogni disciplina ha la sua e, nell’ambito di ogni disciplina, ogni ricercatore si regola come crede. In linea di massima, per essere nano, una particella deve essere sotto il micron di dimensione, e questo è il criterio che usiamo noi. Altre definizioni (la più comune è che le nanoparticelle sono al massimo grandi 100 nanometri) sono perfettamente legittime ma sono meno pratiche per quanto riguarda le nanopatologie.

 

Qual è la distanza di sicurezza da un inceneritore (cementificio, centrale turbogas, centrale a biomasse, ecc.)?

Non esiste una distanza definibile “di sicurezza”. Tenendo in debito conto la direzione dei venti e la situazione meteorologica, la concentrazione di particolato sospeso in atmosfera decresce con l’aumentare della distanza, ma non esiste alcuna concentrazione che possa essere definita “tollerabile”.

 

È più dannoso alla salute il traffico automobilistico o un inceneritore?

La domanda ha poco senso, anche se si sentono “scienziati” disquisire in generale sul tema e, ancor di più, si sentono dei politici. La risposta può esistere solo valutando caso per caso perché occorre essere a conoscenza di un grande numero di parametri (geografia ed orografia della città, dimensione, situazione meteorologica, quantità di traffico, qualità del traffico [proporzione tra l’uso dei diversi tipi di carburante e distinzione fra traffico pesante e traffico leggero], quantità di rifiuti bruciati, qualità dei rifiuti, distanza dell’inceneritore dalla città, ecc.) In generale, la differenza più vistosa che c’è tra i due tipi di origine è nella composizione chimica delle particelle: quelle dell’inceneritore sono molto più complesse perché nell’impianto si trattano quasi tutti gli elementi esistenti.

 

Gl’inceneritori di ultima generazione sono meno pericolosi di quelli vecchi?

No. In effetti gl’inceneritori più recenti producono meno diossine ma particelle molto più piccole e, per questo, molto più pericolose di quelle più grossolane generate dai vecchi impianti.

 

È vero che l’efficienza dei filtri degl’inceneritori è del 99,99%?

L’efficienza di un filtro di quel genere è misurata in massa. Poiché una particella da 10 micron pesa come un miliardo di particelle da 0,01 micron, se io misuro l’efficienza in termini di peso (o di massa, il che, in pratica, è l’identica cosa) ho che, bloccando una particella da 10 e lasciandomene sfuggire una da 0,01 l’efficienza risulta essere del 99,99999999%. Il che non ha alcun significato perché sono le particelle nanometriche quelle insidiose per la salute e sono anche quelle di gran lunga più numerose. Se l’efficienza venisse misurata tenendo conto del numero e dell’inverso del volume come sarebbe ragionevole fare, l’efficienza risulterebbe quasi zero.
Si tenga poi conto che i filtri intervengono solo sulla frazione chiamata, appunto, filtrabile, cioè le polveri primarie che si formano immediatamente laddove si brucia. Sulle polveri primarie condensabili e sulle secondarie, che sono di gran lunga soverchianti rispetto alle filtrabili, i filtri non possono intervenire.
Infine, la solita domanda imbarazzante: che ne fa di quel po’ di polveri che ha catturato?

 

Perché te la prendi con gl’inceneritori e non altrettanto con le altre fonti d’inquinamento?

Perché tra tutte le fonti inquinanti, e sono tante, l’inceneritore con tutte le sue varianti è l’unica a non avere alcuna utilità e a non avere una base scientifica su cui reggersi.

 

Quanti sono gl’inceneritori in Italia?

E chi lo sa? Ufficialmente poco più di una cinquantina, ma in quel numero non sono calcolati gl’inceneritori privati dedicati al trattamento dei rifiuti di un’industria particolare, quelli presso gli ospedali e i cementifici che sono autorizzati a bruciare rifiuti, e sono tanti. In più ci sono le centrali a biomasse che, nei fatti, sono inceneritori. Un tentativo di conoscere il numero degl’impianti, dove siano ubicati, che cosa brucino e quanto era stato fatto tempo fa tramite un’interrogazione che io scrissi per il senatore Nando Rossi, interrogazione alla quale il governo si guardò bene dal rispondere.

 

È vero che il THOR è la soluzione del problema dei rifiuti?

No. Dal punto di vista della produzione di nanoparticelle non ho elementi, visto che non mi è mai stata data la possibilità di allestire analisi. Ma nemmeno quel sistema è capace di eliminare i rifiuti. Purtroppo il principio di conservazione della massa nonè aggirabile.

 

È vero che la torcia al plasma è la soluzione del problema dei rifiuti?

No. Come per il THOR, dal punto di vista della produzione di nanoparticelle non ho elementi, visto che non mi è mai stata data la possibilità di allestire analisi. Di torce al plasma ne esistono pochissime al mondo e quelle poche servono per un solo tipo di rifiuto molto selezionato. Dunque, sono del tutto inadatte a trattare rifiuti solidi urbani.

 

E’ vero che i “dissociatori molecolari” non inquinano?

L’idea è destituita di ogni fondamento. Di seguito un comunicato del 4 marzo 2011:

L’agenzia per la protezione ambientale scozzese SEPA, l’equivalente della nostra ARPAT, ha fornito al Coordinamento Gestione Corretta Rifiuti Valdera il suo 4° rapporto sull’inceneritore di Dumfries, l’impianto realizzato in Scozia referenza industriale di quello che ECOFOR vorrebbe realizzare a Gello di Pontedera, dal quale risulta che ad Ottobre 2010 il “dissociatore molecolare” ha superato di ben 39 volte i limiti di emissioni di mercurio e del 20% di diossine e furani.
Nel 2010 l’impianto di Dumfries ha lavorato per 3.500 ore sulle 8.000 ore previste, incenerendo appena 10.000 tonnellate sulle 60.000 tonnellate previste, non potendo far funzionare correttamente il sistema di rimozione delle ceneri dalle camere di gassificazione e non riuscendo mai a produrre energia elettrica a causa di un grave problema di progettazione. Per quanto riguarda le emissioni in atmosfera, la SEPA non ha avuto la possibilità di valutare la concentrazione di metalli a causa di problemi tecnici avuti dal gestore dell’impianto e, sia a novembre che a dicembre 2010, non ha potuto prelevare campioni di suolo da esaminare a causa della presenza di ghiaccio. Ad ottobre 2010 è stata però riscontrata la presenza nell’ambiente di tutti i tipici elementi inquinanti prodotti dagli inceneritori ed i risultati di tali esami certificano il superamento dei valori massimi di mercurio (1.95 mg/m3 contro un limite massimo di 0.05 mg/m3)  e di diossine/furani (0.12 ng/m3contro un limite massimo di 0.1 ng/m3) dando ancora più valore alla preoccupata lettera dei 165 medici della Valdera pubblicata pochi giorni fa.                         
Come è noto, sia il mercurio che le diossine ed i furani sono sostanze estremamente tossiche e bioaccumulanti. Il mercurio ha effetti negativi sullo sviluppo neurologico, sul sistema cardiovascolare, sul sistema immunitario e sull’apparato riproduttivo oltre a ritardare l’attività microbiologica dei suoli, è persistente e, nell’ambiente, può trasformarsi in metilmercurio, la forma più tossica di questa sostanza. Le diossine ed i furani sono sostanze estremamente cancerogene e mutagene per l’organismo umano, causano danni al sistema immunitario, al sistema riproduttivo, all’apparato ormonale. Fra le principali malattie causate da tali inquinanti si evidenziano i tumori al fegato, alla laringe, sarcomi ai tessuti molli, cancro ai polmoni e le neoplasie infantili il cui rischio è statisticamente significativo per i bambini nati entro 1 Km dalla fonte di emissione.
Alla luce dei nuovi dati non possiamo che ribadire, con ancor più forza, la nostra contrarietà al progetto di un inceneritore e di un’altra discarica proposto da Ecofor, evidenziando l’estremo rischio sanitario oltre che economico. Non è chiaro poi che senso possa avere avviare, come dichiarato recentemente, una nuova sperimentazione di tale inceneritore a Peccioli quando ne esiste già uno in Scozia che non solo non funziona ma emette anche mercurio, diossine e furani fuori dai limiti di legge oltre, come si può immaginare, ad aver portato all’azienda scozzese che gestisce l’impianto grossi problemi economici dovuti ai mancati introiti conseguenti ai problemi tecnici. Semplicemente il progetto di ECOFOR va ritirato, fermando la procedura di VIA attualmente “congelata” in Provincia.
Il CGCRV ha proposto un documento dove si elencano possibili alternative per una gestione corretta dei rifiuti, che va nella direzione indicata dall’Europa di ridurre, riutilizzare e riciclare prima di bruciare o addirittura sotterrare i rifiuti. Siamo ancora una volta disponibili a valutarle insieme ai soggetti istituzionali e alle imprese del territorio, per non restare ancorati al passato e guardare al futuro, per trattare le quantità di rifiuti generate dalla Provincia di Pisa creando nuovi posti di lavoro ad un costo decisamente inferiore ai 44 milioni di Euro necessari per l’inceneritore e ai 20 milioni per la discarica in progetto.

Per approfondire le alternative al progetto Ecofor e per conoscere le iniziative del CGCRV ci si può collegare al sito http://www.cgcrvaldera.it dove è possibile reperire anche il 4° rapporto SEPA.

Quando sentirete un politico che auspica la messa in opera dei cosiddetti dissociatori molecolari, sappiate che si tratta di qualcuno che, se riuscirà nel suo intento, otterrà un po’ di denaro sottobanco.

 

Che cos’è l’uranio impoverito?

Pur accettando il dato di fatto che macchinazioni globali per manipolare la percezione popolare di determinati fenomeni esistono e sono condotti da professionisti abilissimi, io sono sempre abbastanza prudente nell’attribuire a “cosche planetarie” – dalla massoneria all’Opus Dei, dalle Sette Sorelle alle multinazionali del farmaco – tutti i mali del mondo.

Sull’argomento uranio impoverito (comunemente DU, da Depleted Uranium) – qualcosa che mi tocca molto da vicino – però, il sospetto non può non esistere.

Che cosa sia questo DU e come funzioni nelle sue applicazioni sono fatti tutto sommato di grande semplicità, certo più semplici delle regole del baseball o di certi reality show. Eppure la confusione popolare, e non solo popolare, è enorme.

A costo di ripetermi per l’ennesima volta e a costo di semplificazioni su cui qualche addetto ai lavori non perderà occasione di vestire i panni dello snob storcendo il naso, vedrò di chiarire l’argomento. Semplificazioni ho detto, ma niente che non sia scientificamente accettabile.

Che cos’è l’uranio impoverito – L’uranio in quanto tale è un metallo radioattivo che si trova allo stato naturale come ossido o sale in due minerali: la pechblenda e la carnotite. L’elemento esiste principalmente sotto forma di tre isotopi [1]: il 238, che costituisce circa il 99,7% del totale, il 234 che rappresenta una frazione irrisoria, e il 235 che vale circa lo 0,7%.

Perché l’uranio possa essere usato a scopi di produzione energetica o per costruire una bomba atomica occorre aumentare di parecchio la frazione 235, cosa che viene fatta tecnicamente togliendo questo isotopo da grandi quantità di uranio “normale” (formato, come abbiamo visto, da 238 + 235 + 234) e immettendo quel 235 in una quantità relativamente piccola di uranio “normale”. In questo modo, in quella relativamente piccola quantità la proporzione di 235 risulterà molto maggiore, addirittura enorme nel caso della bomba atomica, del suo 0,7% “normale”. Questo è l’uranio arricchito di cui tanto spesso i media hanno parlato a proposito delle centrali nucleari iraniane o di quelle nord-coreane.

Ciò che resta dall’uranio cui è stato sottratto l’isotopo 235 è il cosiddetto uranio impoverito, il DU di cui ci stiamo occupando.

Che cosa si fa con l’uranio impoverito –  Spolpato l’uranio del suo prezioso isotopo 235, il problema è: che fare di questo metallo radioattivo ormai inutile sia per fabbricare bombe atomiche sia per spremerne energia?

Per il suo costo bassissimo o addirittura nullo e approfittando del suo altissimo peso specifico (pesa più o meno 19 volte più dell’acqua e circa due terzi più del piombo) si facevano o si fanno ancora, per esempio, contrappesi per ascensori e stabilizzatori sia per scafi da competizione sia per aerei commerciali, oppure si fanno schermi contro le radiazioni dei raggi X o strumenti per le perforazioni petrolifere.

Ma le quantità di rifiuto in ballo sono enormi e questi sbocchi permettono di “smaltire” (virgolette d’obbligo) percentuali minime del totale.

Una maniera tanto truffaldina quanto comune per liberarsi di questo prodotto di scarto imbarazzante è adulterare alcuni minerali come, per esempio, quelli di ferro, ma anche con questo sistema ne restano sempre quantità molto rilevanti. E, allora, ecco che i militari danno una mano.

Usi militari dell’uranio impoverito – Durissimo com’è, il DU si è dimostrato adattissimo per costruire corazze a protezione dei carri armati, ma altrettanto adatto si è dimostrato per fabbricare proiettili.

Il perché è presto detto. Si tratta di un metallo non solo pesantissimo ma, come accennato, dotato di grande durezza e che, dunque, per queste sue caratteristiche penetra molto bene all’interno dei bersagli usuali in guerra. Ma il grande vantaggio è la sua piroforicità, vale a dire la sua capacità di sviluppare un calore elevatissimo (un po’ oltre i 3.000 °C) quando arriva con una velocità sufficiente a sbattere contro il bersaglio. In questo modo la penetrazione è eccellente e l’effetto devastante, che è quanto si cerca in guerra, è enorme.

L’esercito americano fu il primo ad applicare l’uranio ai proiettili, e gli esperimenti risalgono alla fine degli Anni Settanta, come testimoniato da un documento ufficiale che riporta le prove effettuate al poligono di Eglin (Florida) [2].

Ufficialmente l’esercito italiano non ha in dotazioni armi all’uranio impoverito ma, come è noto o come dovrebbe essere noto, sul nostro territorio ci sono zone in cui eserciti che non sono quello italiano e fabbricanti di armi provano prodotti sulla cui natura noi non veniamo informati. Dunque, il sospetto che armi al DU siano usate in Italia appare legittimo. Non così la certezza.

In Sardegna, al Salto di Quirra, da oltre 50 anni esiste il poligono più grande d’Europa e in zona si verificano casi di tumori e di malformazioni fetali sia nell’uomo sia nell’animale che, per quantità e qualità, stanno finalmente attirando l’attenzione (ma si sta già tentando d’insabbiare il tutto). Se è vero che alcuni giornali attribuiscono gli eventi all’uso di armi al DU, nessuno dispone di prove consistenti al proposito.

Che cosa accade quando si usa un proiettile all’uranio impoverito – Fin dalle prime prove i tecnici militari statunitensi si accorsero che l’altissima temperatura sviluppata dall’impatto tra proiettile e bersaglio generava un aerosol di particelle solide volatili di dimensioni estremamente piccole, e altrettanto immediatamente, pur senza averne esperienza, ipotizzarono l’aggressività per la salute di queste polveri che potevano essere facilmente inalate.

Per molti anni, però, quel documento scomparve e le armi al DU cominciarono ad essere impiegate da eserciti che ne negarono, tuttavia, l’uso quando iniziarono a sorgere i primi sospetti. Se ora, a “confessione” avvenuta, sappiamo più di qualcosa degli esperimenti e dei loro risultati pratici da parte delle forze armate USA, poco o nulla si sa per quanto riguarda quello che allora era l’altro schieramento, l’esercito, cioè, che gravitava intorno all’Unione Sovietica.

Dunque, il proiettile parte e colpisce il bersaglio, di solito oggetti chimicamente compositi. Si sviluppa una temperatura molto alta (come detto, poco più di 3.000 °C) e la parte più vicina al punto d’impatto, quella in cui il calore è maggiore, sublima, il che significa che si trasforma da solida in vapore. Questo vapore, però, entra velocemente in contatto con l’atmosfera di gran lunga più fredda e ricondensa sotto forma di particelle solide di dimensioni finissime, sotto il micron (un micron equivale ad un millesimo di millimetro).

Ma mano a mano che ci si allontana dal punto d’impatto, il calore diminuisce. Così, per una certa distanza, la sublimazione sarà solo parziale, fino a che, allontanandosi, la temperatura sarà troppo bassa per far sublimare la materia ma abbastanza alta per formare polveri sottili; non sottili, però, come quelle generate dalla condensazione dei vapori.

Le polveri che si formano hanno caratteristiche particolari. Quelle di condensazione sono sferiche e cave al loro interno e la loro composizione è quella di leghe del tutto casuali. Il motivo di questa casualità di composizione è dovuta al fatto che i vapori constano della scomposizione del materiale che costituisce il bersaglio e di quello di cui è fatto il proiettile e la condensazione avviene tra elementi che s’incontrano in quel momento per caso.

Le polveri formatesi non per condensazione ma per fusione del materiale che costituisce il bersaglio sono meno sottili, sono molto fragili, sono ugualmente sferiche e cave e hanno una composizione che può essere meno casuale e più vicina a quella del bersaglio.

Le polveri che si formano nelle zone più fredde sono, invece, più grossolane e hanno forme irregolari.

Va da sé che più una polvere è piccola per dimensione, più viene facilmente trasportata dagli agenti atmosferici, e questo è quanto accade alle particelle di cui ci stiamo occupando.

In termini di volume l’uranio che entra in queste reazioni è pochissimo e, stante il suo peso specifico estremamente elevato, tende a cadere entro raggi piuttosto ridotti cosicché, dunque, la sua volatilità risulta minima. Dunque, il numero di particelle che non contengono uranio è immenso rispetto a quelle che, in effetti, lo contengono e che, per di più, sono ritrovabili solo nell’intorno dell’impatto.

A complicare un po’ le cose ci stanno le applicazioni presunte di una scoperta fatta negli Anni Trenta da parte di Percy Williams Bridgman, applicazioni che, se effettivamente messe in opera, porterebbero ad ottenere effetti paranucleari, vale a dire in qualche modo simili, seppure in scala parecchio più ridotta, ad un’esplosione atomica. Io non ho intenzione qui di entrare nell’argomento che esula dallo scopo di questo articolo pur se il suo interesse è enorme. Chi vuole saperne di più può guardarsi i filmati di una conferenza tenuta dal professor Emilio Del Giudice il quale, con estrema semplicità e chiarezza, illustra il fenomeno [3].

Che cosa accade a chi entra in contatto con l’uranio impoverito – La radioattività dell’uranio è nota sin dalla fine dell’Ottocento, e che la radioattività sia dannosa all’organismo è fatto universalmente noto su cui non vale la pena perdere tempo.

Occorre riferire, però, che non risultano (sempre che i dati non siano taroccati, cosa impossibile da escludere) malattie a carico di chi fabbrica le armi al DU, e noi, che di biopsie patologiche di militari reduci da teatri di guerra ne abbiamo controllate all’incirca duecento, non vi abbiamo mai trovato tracce di radioattività. Per sicurezza, abbiamo anche fatto ripetere quel tipo d’indagine su diversi campioni all’Università della Tuscia ottenendo lo stesso risultato.

Quello, invece, che si trova in quei reperti è altro.

A cavallo tra il 1997 e il 1998 noi scoprimmo che le polveri sottili ed ultrasottili solide, inorganiche, insolubili e non biodegradabili possono entrare nell’organismo sia per inalazione sia per ingestione [4] dopo essere cadute su frutta, verdura e cereali [5]. Inalate o ingerite che siano, queste particelle entrano con grande velocità nel sangue per essere trasportate in ogni distretto dell’organismo. Già nel sangue, almeno in una frazione della popolazione, le nanoparticelle inducono la formazione di trombi, cioè di coaguli di sangue [6],[7]. Raggiunta la loro meta, impossibile da determinare a priori, queste vengono imprigionate dall’organo bersaglio per non essere mai più eliminate, non disponendo il nostro organismo di alcun meccanismo utile allo scopo.

Corpi estranei che sono, dopo essersi concentrate in determinati punti dell’organo nel quale sono finite, le particelle provocano la classica reazione infiammatoria con l’induzione conseguente della formazione di un tessuto (tessuto di granulazione) che va a circondarle [8]. A questo punto, così come descritto in centinaia di articoli medici, quel tessuto può trasformarsi in un cancro, il che è esattamente ciò che noi vediamo nelle biopsie dei militari. E che il cancro abbia tra le sue origini le forme infiammatorie è un fatto ampiamente assodato [9].

Il motivo per cui non si trova uranio nelle particelle individuate nei tessuti patologici è quello di cui dicevo sopra: l’uranio è pochissimo e cade molto vicino al bersaglio senza entrare in grande stile atmosfera e, dunque, senza essere inalato né ingerito perché frutta, verdura e cereali non sono più coltivati intorno al punto d’esplosione, se mai lo erano prima. Le polveri di composizione casuale, invece, sono in grado di coprire parecchi chilometri e, per questo, di entrare anche in organismi di persone che si trovano relativamente lontane dal luogo in cui è avvenuta l’azione bellica.[10]

Insomma: l’uranio non è l’assassino ma il mandante. Da qui nasce una grande confusione, perché l’uranio non si trova nei reperti patologici e, dunque, viene scagionato da chi non conosce la catena degli eventi o finge di non conoscerla. Deve essere chiaro, invece, che l’uranio è all’origine del fenomeno e, se non se ne trovano tracce nei campioni di tessuto è proprio per le sue proprietà chimico-fisiche.

Si deve aggiungere, però, che esistono altri materiali che possiedono caratteristiche tutto sommate analoghe a quelle del DU. Tra queste il tungsteno, un metallo che, addirittura, innesca temperature intorno ai 5.000 °C ma che viene usato pochissimo almeno per due motivi: costa caro e non è un buon penetratore.

Che cosa sono le nanoparticelle – Ogni combustione – e le esplosioni sono combustioni rapide e violente – produce polveri e queste sono classificate a seconda di più di un punto di vista, in parecchi modi diversi, uno dei quali è per dimensione. Come tutte le classificazioni, anche in queste c’è moltissimo di arbitrario, il che non significa che le varie classificazioni non siano valide e non debbano essere accettate. Basta solo capire di che cosa si sta parlando e quale sia il suo significato.

Per quanto riguarda le nanoparticelle, di solito s’intendono per tali entità che vanno dai 2 nanometri (un nanometro è un miliardesimo di metro) ai 200 nanometri, ma, anche in questo caso, l’intervallo dimensionale e i suoi limiti sono una pura convenzione.

Quando si parla di nanopatologie, cioè di malattie da micro- e nanopolveri, è più opportuno intendere per microparticelle quelle che vanno dal micron in su, fino a qualche decina di micron (un micron è un milionesimo di metro), e per nanoparticelle quelle di misura inferiore. Questo per vari motivi, uno dei quali, puramente notarile, è che non si saprebbe come classificare le particelle che stanno tra i 201 e i 999 nanometri. Ma la cosa, in fondo, è di nessuna importanza. Una volta che si sia dichiarato che cosa s’intenda in un determinato discorso con una determinata parola, non ci si deve più perdere tempo sopra.

Va, poi, considerato il fatto che le nanoparticelle possono avere origine da microparticelle formatesi a caldo che si rompono a causa della loro fragilità, e, comunque generatesi, tendono pure ad agglomerarsi, formando, così, entità complesse di dimensioni nettamente superiori a quelle dei componenti. Questo comportamento è evidente anche all’interno dell’organismo dove accade spesso che nanoparticelle formino agglomerati.

Insomma, il comportamento di queste piccole entità è qualcosa di piuttosto complicato e molto c’è ancora da scoprire in proposito.

Fatti e opinioni – Tutto quanto descritto finora è una lista di fatti.

Per una lunga serie di motivi che trovano la loro principale ragion d’essere nei quattrini – e tanti – esistono interessi che, per sopravvivere fino a prosperare, hanno bisogno di nascondere ciò che dal punto di vista meramente scientifico è di una semplicità e di una logica elementari.

E, allora, ecco che si ricorre ad un piccolo repertorio di espedienti tanto antichi quanto efficaci. La prima cosa che si fa è confondere i fatti con le opinioni.

Mentre, volendo essere onesti, l’opinione dovrebbe di diritto essere l’interpretazione e la discussione di un fatto visto da punti d’osservazione e d’interesse diversi, il tutto al di fuori della certezza di quanto si esprime, qui l’opinione diventa la distorsione o la negazione fino al nascondere del tutto l’esistenza stessa dei fatti. Ad aggravare la questione, è molto frequente che un’opinione sia fatta passare per un fatto e viceversa. Dunque, il grande pubblico, quello che non possiede le nozioni necessarie per discernere fatti da opinioni, diventa preda facile di chi di mestiere manipola i cervelli, figure professionali impiegate di prassi da centri d’interesse importanti.

La seconda mossa è quella di mettere a libro paga qualche “luminare” disposto, in cambio di qualcosa che non sempre e non solo può essere denaro, a prestare il suo “lei non sa chi sono io” allo scopo. Chi conosce la letteratura di anni passati spacciata per scientifica e pubblicata anche da riviste prestigiose a proposito di amianto, diossine, piombo tetraetile, cloro-fluoro-carburi, ecc., che ne “dimostravano” l’innocuità, dimostratasi poi fasulla come era già noto agli scienziati veri, sa di che cosa stiamo parlando. E, a contorno di questi “luminari” che, comunque sia, erano un tempo e sono anche ora persone che bazzicano intorno all’argomento, si crea tutta una serie di personaggi minori, quasi sempre completamente estranei a ciò di cui si tratta, trasformati mediaticamente in esperti.

Va da sé che per il DU non poteva che accadere la stessa cosa.

Ecco, allora, che gli Stati Uniti, che non volevano assolutamente che delle malattie ormai impossibili da nascondere a carico dei reduci dalle Guerre del Golfo fossero accusati gli armamenti al DU, finanziarono ricerche su certi pesticidi o altri prodotti chimici che venivano irrorati sulle tende da campo. Oltre che dispendioso, il tentativo si rivelò anche piuttosto ingenuo perché quelle sostanze non erano mai state usate da altri eserciti i cui soldati si ammalavano delle stesse malattie.

Ora, almeno in Italia, si sta tentando un’operazione analoga lanciando stavolta i vaccini come colpevoli delle malattie cosiddette “da uranio impoverito”. Che i vaccini contengano sostanze non propriamente benefiche alla salute è qualcosa d’innegabile. Noi stessi vi abbiamo reperito in più occasioni particelle metalliche che proprio non dovrebbero esserci. In aggiunta, ai militari che partono per le zone di guerra si somministrano contemporaneamente non pochi vaccini contro le malattie più disparate e l’organismo non è certo in grado di reagire in maniera corretta a questi attacchi. Tuttavia non è stata fornita alcuna spiegazione di come quei vaccini possano innescare un cancro, la classe di malattie più comunemente indicata come “da DU”. Per farlo occorre individuare la sostanza comune a tutti i vaccini somministrati che s’intende incriminare o, magari, si può individuare un gruppo di sostanze. Di questa o di queste va illustrata la farmacocinetica, cioè il loro meccanismo d’assorbimento, la loro distribuzione, le loro trasformazioni all’interno dell’organismo ed, eventualmente, la loro eliminazione o mancata eliminazione. Se le sostanze in ballo sono più d’una, è opportuno considerare almeno la loro reciproca eventuale interazione. Nulla di tutto ciò è stato fatto e la tesi resta appesa a vagamente grotteschi “lei non sa chi sono io”. A questo va ad aggiungersi un fatto che, da solo, dovrebbe far cestinare l’idea: di quelle malattie si ammalano anche i civili che abitano in zone di guerra e che mai sono stati vaccinati. Per di più si ammalano pure gli animali da reddito la cui vaccinazione somministrata con le modalità di quelle applicate ai militari risulta tutta da dimostrare. Per concludere, non esiste letteratura scientifica che arrivi a conclusioni secondo cui i vaccini inducano cancro, mentre ne esiste, pur essendo ancora in fase di discussione, non poca altra che incolpa i vaccini di aver indotto autismo o, con minore gravità ma con maggiore frequenza, difficoltà di apprendimento nei bambini. Dunque, nel caso specifico una bufala e basta nella quale possono cadere solo coloro che hanno interesse a caderci. Resta tuttavia acuto il problema delle vaccinazioni con i farmaci usati ora e, nel caso specifico, con le modalità applicate per i militari. Se questi farmaci non possono a rigor di scienza essere accusati delle patologie cosiddette “da DU”, la loro innocuità presta il fianco a più di un dubbio.

In tutto questo caos, a mio parere tutt’altro che casuale e involontario, una responsabilità pesante ce l’hanno i giornalisti. Facendo qui d’ogni erba un fascio, magari ingiustamente perché qualche rara eccezione esiste, se si va a leggere ciò che questi scrivono o ciò che questi raccontano nelle varie TV c’è davvero di che rabbrividire. Eppure a me è capitato in più di un’occasione di veder citati come documenti affidabili proprio articoli di giornali a dir poco abissi di equivoco e d’ignoranza. Tralasciando svarioni come confondere infiammazione con infezione, tanto per citare solo uno degli errori macroscopici in cui questi professionisti cadono allegramente, per non pochi di loro la parola “molecola” può essere un sinonimo di particella, quando la particella in questione è quella uscita, per esempio, da un’esplosione o dall’incenerimento di rifiuti. In realtà si tratta di entità diversissime che non possono essere confuse se si pretende una qualche credibilità, cosa che, a quanto pare, viene concessa ugualmente.

Ma anche i “professori” non sono proprio innocenti. Pochi giorni fa mi è capitato di partecipare come semplice spettatore ad un convegno tenutosi all’Università di Bologna che aveva per tema la percezione che la gente comune ha del problema del DU. Chi illustrava l’argomento erano, ovviamente, professori universitari. Come sempre io mi astengo dal giudicare tutto ciò che riguarda la percezione perché questo esula dalla mia competenza, ma posso assicurare che le sciocchezze tecniche che sono uscite erano davvero degne di un bar o di un blog Internet.

Differenza di comportamento tra atomo e particella – Uno degli elementi di confusione più frequenti è quello di pasticciare tra il comportamento di un elemento chimico in stato atomico o ionico o legato con una molecola organica ed il comportamento di quello stesso elemento quando si trova sotto forma di nano- o microparticella. Si tratta di condizioni non poco diverse che dovrebbero essere chiare almeno a chi si occupa di tossicologia. E, invece, così non è.

Sempre per non complicare troppo le cose, visto che mi sto indirizzando ad un pubblico di non addetti ai lavori, prendiamo come esempio un elemento chimico notissimo per la sua tossicità: l’arsenico. Questa sostanza viene assorbita sia a livello dei polmoni sia a livello dell’apparato gastrointestinale e può provocare una lunga serie di patologie tanto acute quanto croniche tali da poter portare alla morte.

Le particelle di cui noi ci occupiamo, però, hanno un comportamento in parte diverso rispetto agli elementi di cui sono costituite. Per prima cosa, come abbiamo visto per le esplosioni da DU e come avviene in tantissime altre occasioni (per esempio negl’inceneritori di rifiuti), le particelle che si formano sono composte da diversi elementi (noi ne abbiamo trovati fino a quindici in particelle di diametri piccolissimi) e questi elementi si trovano con grandissima frequenza sotto forma di lega.

Il primo fattore di aggressività esplicato dalle particelle non è dovuto alla loro composizione chimica ma al loro essere corpi estranei, e questo qualunque ne sia la composizione. Per rendere la cosa più comprensibile, immaginate di trovarvi di fronte ad una pallottola sparata da un’arma e immaginate che questa pallottola vi trapassi il cuore uccidendovi. La morte sopravverrà qualunque sia la composizione del proiettile, sia esso d’acciaio, di tungsteno, di piombo, di ferro o di qualunque altro elemento o combinazione d’elementi con una consistenza sufficiente. Ciò che vi ha ucciso è stata la capacità della pallottola di perforare il cuore e non la sua composizione.

Importantissima nel caso delle particelle è la loro dimensione: più è piccola, più la particella è mobile e penetrante, fino a riuscire ad insinuarsi nel nucleo delle cellule.

Anche la forma conta parecchio: una costituzione irregolare come quella che risulta dalle particelle sferiche che si rompono andando in mille pezzi è più penetrante rispetto ad una particella tonda integra.

E, tra i molti fattori di aggressività, esiste pure, finalmente, quello caro ai tossicologi un po’ meno aggiornati degli elementi di cui la particella è formata, specie se la particella viene corrosa. Dunque, se c’è arsenico nella particella, è possibile che la sua tossicità caratteristica si ritrovi nel soggetto colpito.

L’errore fondamentale del tossicologo classico, quello che ignora la disciplina chiamata econanotossicologia (una disciplina che costituisce una punta avanzata della tossicologia) è quello di non capire, per difetto di conoscenza, la differenza tra elemento e particella, cadendo così in confusione e trascinando nella sua stessa confusione chi si fidi di lui. Oggi sono in corso studi di econanotossicologia di grande interesse e su questi si tengono convegni e congressi in tutto il mondo scientificamente avanzato. La speranza è che i risultati, definitivi o di lavori in corso che siano, arrivino alla conoscenza sia dei tossicologi di routine sia, magari semplificati ma rigorosamente corretti, del grande pubblico.

Conclusione – Come accade per molti temi critici, il pubblico medio, in soverchiante condizione di maggioranza numerica, è facilmente manipolabile con la somministrazione di notizie distorte o censurate. Chi conosce la mente umana sa bene che questa accetta di buon grado tutto quanto la tranquillizza e rifiuta, di contro, ciò che, pur scientificamente ineccepibile, ne turba i sonni. Ecco, allora, che il rischio antico e ripetuto ormai all’infinito di cadere preda dei venditori di terni al lotto, di sali contro il malocchio o di  “non è successo niente” diventa pericolo reale. Ancora una volta l’unica arma di legittima difesa di cui disponiamo è la conoscenza unita, magari, alla serenità critica.

Articolo pubblicato su Il Democratico:

http://ildemocratico.com/2011/04/11/esclusivo-tutta-la-verita-sulluranio-impoverito-part-1/

http://ildemocratico.com/2011/04/15/esclusivo-tutta-la-verita-sulluranio-impoverito-part-2/

 


[1] Semplificando molto, un atomo è costituito da un nucleo e da entità molto più piccole che al nucleo ruotano intorno. Il nucleo è composto da particelle subatomiche (niente a che vedere con le particelle fini ed ultrafini di cui parleremo nell’articolo) chiamate protoni che hanno una carica elettrica positiva, e intorno al nucleo ruotano particelle molto più piccole dei protoni chiamate elettroni la cui carica elettrica è negativa. Per equilibrare le cariche, protoni ed elettroni sono pari per numero. Il nucleo, però, ospita anche altre particelle, stavolta senza carica elettrica, chiamate neutroni. Questi possono essere in numero variabile. Si chiama isotopo, allora, ciascuno degli atomi di uno stesso elemento chimico con lo stesso numero di protoni e di elettroni ma con un differente numero di neutroni. Per esempio l’idrogeno, l’atomo più piccolo e più comune dell’universo, non ha normalmente alcun neutrone. Se, abbastanza eccezionalmente, capita che ne abbia uno, si ha l’isotopo chiamato deuterio. Se i neutroni sono due, l’isotopo è il trizio.

[2] Technical report of the Air Force Armament Laboratory – Armament development and test Center, Eglin Air Force Base, Florida, USA, From October 1977 to October 1978, Project n° 06CD0101 http://www.stefanomontanari.net/sito/images/pdf/eglin.pdf

[3] Ricerca scientifica e nuove armi (Parte 1) http://www.youtube.com/watch?v=8o6djrFAwUw
Ricerca scientifica e nuove armi (Parte 2) http://www.youtube.com/watch?v=uDepTKzvTaQ
Ricerca scientifica e nuove armi (Parte 3) http://www.youtube.com/watch?v=k15-HcAm_6I

[4] A.M. Gatti, M. Ballestri, A. Bagni, Granulomatosis associated to porcelain wear debris,  American Journal of Dentistry  2002, 15(6): 369-372

[5] A.M. Gatti, D. Tossini, A. Gambarelli, S. Montanari, F. Capitani – Investigation of the Presence of Inorganic Micron- and Nanosized Contaminants in Bread and Biscuits by Environmental Scanning Electron Microscopy – Critical Reviews in Food Science and Nutrition, 49:275-282 (2009)

[6] A.M. Gatti, S. Montanari, Retrieval analysis of clinical explanted vena cava filters J. of Biomedical Materials Research: Part B. 77B, 307-314, 2006             IF 2.105

[7] A.M. Gatti, S. Montanari, A. Gambarelli, F. Capitani, R. Salvatori In-vivo short- and long-term evaluation of the interaction material-blood Journal of Materials Science Materials in Medicine, 2005, 16, 1213-19

[8] A.M. Gatti, S. Montanari Risk assessment of micro and nanoparticles and the human health, capitolo di  H.S. Nalwa – Handbook  of  Nanostructured biomaterials and their applications – American Scientific Publisher USA 2005, cap. 12, 347-369

[9] A.M. Gatti, S. Montanari “Nanopathology” Ed. Pan Stanford 2008, ISBN 10-9814241008

[10] A.M. Gatti, S. Montanari – Nanocontamination of the soldiers in a battle space – capitolo di I. Linkov e J. Steevens (eds.) – Nanomaterials: Risks and Benefits – Springer Science  + Business Media B.V. 2009 – pagg. 83 – 92

 

Che cosa c’è nelle scie chimiche?

Questa è una domanda che per me è diventata un tormentone. Se non mi si danno da analizzare campioni di scia prelevati direttamente, cioè nella scia stessa, non posso dire nulla. I campioni presi a terra non hanno alcun valore perché non esiste prova sostenibile che appartengano ad una scia. Negli anni ho analizzato reperti che mi si giurava provenissero da scie chimiche. Alla prova dei fatti altro non erano se non normalissima polvere ambientale. Perciò prego tutti di non chiedermi niente in proposito a meno che non si disponga di campioni presi direttamente sulla scia e che io possa analizzare. Quanto alle malattie eventualmente collegate alle scie chimiche, non ne so assolutamente nulla per le ragioni esposte sopra. Resta il fatto che le scie le vedo anch’io, ma da qui a poter dire con serietà di che cosa si tratta ne corre.

 

Usare farmaci che contengono argento colloidale è pericoloso?

Esistono cose più pericolose a questo mondo, ma io non userei mai quella roba. Le particelle d’argento sono tossiche e, comunque, costituiscono dei corpi estranei per il nostro organismo, con tutte le conseguenze ormai note. Come per tutte le particelle di metalli pesanti, anche queste non sono eliminabili dall’organismo e, come è naturale, si accumulano causando nel tempo la formazione di tessuti infiammatori che possono trasformarsi in cancri. Ricordo che l’FDA elenca l’argento solo tra i pesticidi.

 

Quali sono gli alimenti che contengono nanoparticelle?

La lista di alimenti pubblicata nel sito www.nanodiagnostics.it indica i campioni che abbiamo analizzato. Come spiegato da anni in libri, articoli (anche se ben pochi li leggono) e conferenze, oltre che nel sito della Nanodiagnostics e su questo blog, abbiamo prelevato un solo campione di ognuno di quegli alimenti e lo abbiamo controllato. Il fatto che ci abbiamo trovate presenti delle micro o nanoparticelle non significa affatto che quell’alimento contenga sempre e comunque quelle particelle o, addirittura, che contenga sempre e comunque particelle. L’inquinamento è spesso puramente occasionale e casuale. Il motivo per cui abbiamo resi noti quei dati è stato solo per attirare l’attenzione sul fatto che l’inquinamento particolato è ignorato dalle leggi, a dispetto della sua pericolosità. D’altro canto, esistono alimenti o prodotti assimilabili ad alimenti nei quali le particelle vengono aggiunte deliberatamente dal produttore come, ad esempio, accade per certe cioccolate o certe gomme da masticare. A mio parere quei prodotti vanno accuratamente evitati. I prodotti industriali vengono fabbricati quasi sempre con materie prime della provenienza più disparata ed incostante e, dunque, è impossibile, analizzando un  solo campione, affermare che quel prodoto è sempre inquinato. Meno impreciso è quanto si può stabilire da un’indagine su un campione di prodotto biologico che provenga con certezza da un luogo specifico o di una materia prima ricavata anch’essa da un luogo di cui si abbia conoscenza e che resti quello.

 

DIOSSINA: PER SAPERNE DI PIÙ (Dal sito di altroconsumo.it)

Cosa si intende con il termine “diossine”?

Le diossine costituiscono un gruppo di prodotti chimici. Il loro nome scientifico è “composti aromatici policlorati”; hanno struttura, proprietà fisiche e chimiche analoghe. Non si tratta di composti creati volutamente, le diossine si formano in seguito a processi chimici: fenomeni naturali (come eruzioni vulcaniche, incendi boschivi) o di origine umana (fabbricazione di prodotti chimici, pesticidi, acciaio, pitture, emissioni di gas dis carico e inceneritori…). Per questo le diossine non possono essere “proibite”: sono un sottoprodotto indesiderato dell’attività industriale.

I diversi composti che rientrano nella famiglia delle diossine sono circa 210, dei quali 17 presentano rischi per la salute.

Alcuni tra gli appartenenti a un altro gruppo di prodotti chimici, i PCB (policlorobifenili), sintetizzati per uso industriale, presentano rischi per la salute simili a quelli provocati dalle diossine e sono quindi frequentemente qualificati come “PCB diossinasimili”. Il loro uso è stato molto ristretto per legge, ma sono ancora presenti come inquinanti.

In che modo l’uomo può essere esposto alle diossine?
Le diossine si trovano nell’atmosfera, nell’acqua e nel suolo, in alcuni alimenti. L’uomo può essere esposto alle diossine lavorando in settori industriali nei quali queste sostanze rappresentano dei sotto-prodotti, oppure per eventi accidentali sempre legati all’industria, o tramite prodotti alimentari di origine animale; nell’insieme, il contatto cutaneo e l’inalazione rappresentano vie di esposizione molto limitate. L’assorbimento principale avviene attraverso gli alimenti contaminati.

Le diossine infatti non sono solubili nell’acqua, ma sono molto solubili nei grassi. Di conseguenza si legano ai sedimenti e ai materiali organici nell’ambiente e vengono assorbite dai tessuti grassi umani e animali. Inoltre non sono biodegradabili, per cui possono accumularsi nella catena alimentare.

Quali effetti sulla salute ha il consumo di alimenti contaminati da diossina?
Le diossine hanno una serie di effetti tossici e biochimici; alcune di esse sono incluse tra le sostanze cancerogene per l’uomo. Test su animali da laboratorio hanno mostrato un legame tra l’assorbimento di diossine e disturbi della salute come l’endometriosi (problema a carico dell’utero), problemi dello sviluppo, disturbi neurologici, problemi dell’apparato riproduttivo (calo del numero di spermatozoi, malformazioni), effetti sul sistema immunitario. Questi effetti possono comparire a livelli di esposizione alla diossina nettamente inferiori a quelli che provocano l’aumento del rischio di tumori.

In che modo le diossine entrano nella catena alimentare?
Le diossine possono entrare nell’alimentazione attraverso diverse vie. La contaminazione dell’ambiente è causata principalmente dal trasporto nell’atmosfera e dalla ricaduta al suolo di emissioni provenienti da fonti diverse (incenerimento di rifiuti, industrie chimiche, traffico e via dicendo). Fonti di inquinamento particolari possono creare aree localizzate dove la contaminazione è maggiore.

Il suolo costituisce un luogo di accumulo naturale: oltre alle ricadute atmosferiche, le diossine possono accumularsi a causa di fanghi di depurazione, discariche non controllate, erosione da zone contaminate.

Il trasporto atmosferico e la ricaduta sono la principale fonte di inquinamento di verdure a foglia, di pascoli e di foraggio. Le foglie sono poi consumate direttamente dagli animali al pascolo o conservate per produrre fieno o insilati (alimenti per bestiame conservati in appositi silos). L’utilizzo di fanghi come concimanti può in alcuni casi aumentare l’esposizione alla diossina degli animali.

Le diossine si concentrano nei tessuti grassi di bovini, ovini, suini, pollame e frutti di mare. In linea di massima, più è lunga la durata di vita dell’animale, più è facile che le diossine si accumulino nel suo organismo.

Quali sono gli alimenti più a rischio?
In generale, gli alimenti di origine animale contribuiscono tutti insieme all’80% dell’esposizione umana globale alle diossine. La contaminazione può variare molto a seconda dell’origine degli alimenti. La carne, le uova, il latte e derivati, il pesce di allevamento possono avere livelli di diossina superiori a causa della diossina presente nei mangimi.

La dose di diossina assorbita individualmente varia molto a seconda del tipo di alimentazione seguito. Per esempio una dieta incentrata su un solo tipo di cibo proveniente da zone molto inquinate (come il pesce del Baltico) comporterà un esposizione maggiore di una dieta ricca di cibi di origine vegetale e in generale molto variata.

Quali consigli pratici si possono dare per ridurre il più possibile l’assorbimento di diossina?
Come abbiamo visto, il problema è generalizzato. Non si tratta quindi di escludere questo o quell’alimento, ma di organizzare bene la propria dieta quotidiana.

In linea di massima, i consigli che si possono seguire sono gli stessi che rendono in generale più salubre la propria alimentazione:

•ridurre il consumo di alimenti di origine animale (carne, latticini, uova), privilegiando verdura e frutta, legumi (fagioli, piselli, lenticchie, ceci) e cereali (pasta, riso, mais);
•variare la propria dieta, in modo da introdurre tanti alimenti diversi.
Dato che le diossine si accumulano nei grassi è bene inoltre cercare di mantenere il peso forma.

(informazioni basate su un documento della Commissione europea)